Snack arricchiti con chicchi di luppolo scartati durante la lavorazione della birra, the e barrette ai cereali a base di foglie e noccioli di avocado, chips di frutta disidratata con essiccatori solari: sono alcune delle soluzioni promosse da aziende e startup d’Oltreoceano e non solo, che hanno aderito all’Upcycled Food Association con sede a Denver. Nata alla fine del 2019, l’organizzazione no profit già conta 70 imprese produttrici di circa 400 prodotti, realizzati con cibo e sottoprodotti della filiera alimentare riciclati in modo creativo, generando valore e posti di lavoro.
Turner Wyatt, CEO della Upcycled Food Association, ha affermato: “riciclare gli alimenti è una pratica antica che consente di limitare gli sprechi, ottenendo prodotti di alta qualità, ricchi di sostanze nutritive che troppo spesso scivolano fra le falle del nostro sistema alimentare”. Sprechi che, secondo la Fao, costano all’economia globale 940 miliardi di dollari l’anno. E che, stando al Progetto Drawdown per il contrasto a cambiamento climatico e disuguaglianze, sono responsabili della produzione annua di 70 miliardi di tonnellate di gas serra, pari a circa l’8% delle emissioni globali.
A inizio anno, l’Upcycled Food Association ha convocato una task force che ha visto coinvolti rappresentanti della Harvard Law School, della Drexel University, del Natural Resources Defence Council, del WWF e del ReFED, per definire tecnicamente il cosiddetto “upcycled food” (alimenti riciclati in modo creativo) e per classificare quella che l’organizzazione e i suoi membri considerano a tutti gli effetti una nuova categoria alimentare.
Un concetto già noto in ambito culinario utilizzato, ad esempio, da chef che elaborano preparazioni gourmet con gli avanzi della cucina e diventato espressione di un settore emergente dell’industria alimentare. Solo lo scorso anno, secondo Future Market Insight, il settore del cibo riciclato ha fatturato circa 46,7 miliardi di euro nel mondo, con un tasso di crescita annuale stimato entro i prossimi 10 anni del 5%.
“Gli alimenti riciclati sono ricavati da ingredienti altrimenti esclusi dal consumo umano. Sono acquistati e prodotti attraverso catene di approvvigionamento verificabili e hanno un impatto positivo sull’ambiente”. Questa è la definizione rilasciata dalla task force di esperti chiamati in causa per mettere a punto uno standard di certificazione che consentirà ai consumatori di poter riconoscere le produzioni di aziende virtuose grazie a un marchio di qualità da apporre sugli imballaggi, comunicando al contempo l’impatto positivo determinato dai loro acquisti.
L’obiettivo è quello di non vedere più le grandi aziende implicate in operazioni di Greenwashing ma convincerle ad adottare ingredienti riciclati, assicurandosi che siano effettivamente destinati al consumo umano e a nutrire la popolazione. Lo scopo è dunque quello di elevare il cibo al suo massimo e migliore utilizzo, senza esercitare ulteriori pressioni sull’ambiente e aiutando gli agricoltori ad ottenere più valore dalla terra.
Tante le realtà che animano questo variegato movimento, esempio di come l’estro imprenditoriale stia trasformando avanzi e sottoprodotti in opportunità. Se la Acari Fish confeziona croccanti patatine a base di pesci alieni, sottratti da ecosistemi a rischio, la Pulp Pantry utilizza la polpa residua di succo di verdure, evitando lo spreco di oltre 13 mila kg di alimenti. La Repurposed Pod ottiene succo di cacao dai residui della lavorazione del cioccolato, sostenendo gli agricoltori delle comunità equadoregne. E mentre la startup Bad Apple Produce vende a metà prezzo frutta e verdura escluse dalla Grande Distribuzione, recapitandola a domicilio in comode cassette, l’azienda Sir Kensington prepara maionese vegana con i reflui della cottura dei ceci, altrimenti smaltiti dai produttori di hummus.
Soluzioni innovative che stanno ripensando il modo di produrre il cibo e che fanno della circolarità un elemento cardine delle loro strategie, ponendo un ulteriore tassello per la transizione a un sistema più sostenibile e resiliente!