Nel 1985, Marvin Harris, antropologo statunitense, in “Buono da mangiare” cercò di rispondere ai vari interrogativi sul cibo.
L’uomo infatti da sempre evita certi alimenti proprio perché inadatti ad essere ingeriti dalla nostra specie. Di fatto, il nostro intestino non è idoneo ad assumere enormi quantità di cellulosa, foglie, fili d’erba e legno ma ci sono sostanze che, pur essendo del tutto commestibili biologicamente, l’uomo evita volontariamente di mangiare.
Questo punto di vista spiega perché alcuni gruppi, in particolari luoghi, mangiano e trovano molto gradevole ciò che altri disdegnano e detestano: gli Indù provano orrore per la carne di manzo mentre gli Americani non riescono minimamente ad immaginare uno stufato di cane. Le differenze genetiche, quindi, non bastano a spiegare la diversità. Esiste qualcosa che, oltre alla filosofia della digestione, influisce sulla definizione di ciò che è buono da mangiare.
Si deve quindi tornare a pensare alla propria cultura gastronomica. Ogni essere vivente, infatti, ha le proprie abitudini alimentari che non vanno né derise né criticate per il fatto di essere diverse. Non a caso già i Romani, che avevano un vasto impero e vedevano immense tradizioni alimentari differenti, non cambiarono la loro usanza del mangiare salse di pesce putrido, e a chi li criticava rispondevano: “De gustibus non est disputandum”. Il cibo, infatti, prima di entrare nello stomaco, deve innanzitutto nutrire la mentalità collettiva.
Se da un punto di vista nutrizionale il cibo serve a rifornire il corpo e costruire ossa e muscoli, da un punto di vista culturale si può tradurre come un codice comunicativo, un sistema di pensiero, una pratica sociale o un’esperienza emozionale.
Il cibo genera, infatti, distinzione in ogni territorio. In Italia, ogni Regione si connota per un suo specifico profilo gastronomico, oggi al centro di un vasto processo di valorizzazione commerciale e culturale.
Dal punto di vista alimentare, infatti, si sono riscoperti i sapori ed il mangiare locale. Il modo di mangiare è diventato più attento e consapevole e nel suo paniere di prodotti si possono trovare tutti quei cibi definiti tipici e locali che rispondono a particolari caratteristiche: fanno parte della filiera corta e dei km0, hanno bisogno di una manifattura artigianale e non industriale, necessitano delle interazioni uomo-ambiente, mantengono la stagionalità produttiva ed esprimono tecniche della cultura agro-pastorale.
Perché è vero comunque che il mangiare non consiste solo nel semplice gesto di farsi un panino fuori di casa in pausa pranzo, accostarsi a una tavola imbandita e gustarsi un bel piatto di maccheroni fumanti, un pollo arrosto o una fetta di dolce. Dietro ogni abitudine alimentare dei popoli della terra c’è sempre una spiegazione, sociologica o religiosa che sia, usanze e tabù.
Il cibo dunque non è solo un semplice strumento di sussistenza per l’uomo, ma è molto di più: è un elemento d’identità culturale, un’esperienza, un ponte verso la propria terra, i propri affetti, i propri luoghi, ma anche verso se stessi.